giovedì 30 settembre 2010

Infondatezza dell'ateismo, parte III

Colui che nega l’esistenza della Divinità, è come chi, vivendo nelle profondità dell’artico, ove solo ghiaccio, neve, acqua, freddo e cielo sono, nega l’esistenza degli alberi perché mai li ha visti, mentre qualcuno, pochi, sostengono che essi sono, non qui, dove sempre si è vissuti e da cui non si può andarsene, ma altrove, e che è necessario credere che esistano, altrimenti non ci sarebbe la vita. Ora, non per questo, gli alberi non esistono in assoluto da qualche parte. Il non avere alla portata dei sensi non implica la non esistenza. Altrimenti diremmo che l’America non esiste.
 Tuttavia, c’è chi sostiene ciò, ovvero che se per una persona l’oggetto non esiste, effettivamente non esiste per quella persona. Ciò che è, è ciò che si trova nell’orrizzonte del singolo. Ma, come abbiamo già mostrato, fratelli, ognuno ha la sua Divinità.
Ma, se si volesse andare più a fondo in questo discorso ed esplicitarlo meglio, allora si vedrebbe che, negando l’idea in sè, il noumeno, ovvero il mondo, e mantenendo solo l’io penso, questo io penso assorgerebbe a Divinità e sarebbe Dio, poiché solo egli sarebbe creatore del fenomeno. Mi si dice, poi, che questo io pensante potrebbe essere autogenerato e poi subito morto, nel nulla un alito, oppure essere eterno, o eterno e finito insieme, nel nulla un punto privo di dimensioni che fra illusioni vive.
Or bene, fratelli, è necessario, per quanto la tesi sia affascinante, mostrare con chiarezza le conseguenze. Se l’io pensante è creatore del fenomeno, tutto viene da lui e da lui dipende e quando egli non sarà più, null’altro sarà e non resterà che il non essere, il nulla. Eppure, per quale ragione l’io dovrebbe essere? Chi lo fa essere, anche nel brevissimo tempo infinitesimale prima della sua scomparsa, o nella sua privazione di dimensioni? O si ammette un altro principio all’infuori dell’io, o si deve dire che l’io è grazie all’io stesso, che pone se stesso nell’essere. Ciò vorrebbe dire che l’io dovrebbe porre se stesso come diverso e porlo poi nell’essere e riconoscersi come io. Ciò è possibile. A meno che l’io non coincida in tutto con l’essere. Ma allora è Divinità e si ammette l’esistenza di una Divinità, che è l’io stesso.
Se l’io fosse fra un’illusione e l’altra, allo stesso modo la Divinità è necessario porla; o è una Divinità esterna a porre l’io nelle illusioni, o è l’io Divinità a crearsi attorno le illusioni. In ogni caso, il Dio esiste.
Ammettere che sia l’io Divinità pone una questione, tuttavia, che si pone anche se si insiste a non considerare l’io come Divinità: il noi, il tu, l’egli? L’altro, insomma? Sono creazioni dell’io? E chi assicura all’io di non essere una creazione di uno degli altri io? Il fatto che l’io sa di pensare, potreste rispondere. Ma l’io sa veramente di pensare? Non potrebbe essere un altro a dargli l’illusione di pensare e a dare origine al fenomeno? Ogni io potrebbe, invero, far parte del sogno degli altri io, i quali a loro volta fanno parte del sogno dell’io? E dunque, manca l’origine.
 Porre tutti gli io, con i loro sogni e creazioni, nell’unico sogno della Divinità, questo, fratelli, è saggio.
 
 
(10 Luglio 2010)

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