Credo che esaminare brevemente la democrazia di Atene possa illuminare molto sulle democrazie attuali, le quali pare che si richiamino molto a quella ateniese, tanto è vero che un passo del celebre epitaffio di Pericle, scritto da Tucidide, in cui lo storico fa esaltare dal politico la forma di governo di Atene, è stato incluso nella costituzione europea, da cui invece sono state escluse le radici cristiane.
Innanzi tutto, la democrazia che noi abbiamo in mente quando pensiamo ad Atene è la cosidetta democrazia radicale, instaurata nel 461 da Efialte, che riuscì a far sì che l’Assemblea cancellasse quasi tutti i poteri dell’Areopago, il vecchio organo di governo che aveva retto la città per molto tempo e che era, si può dire, l’espressione dell’aristocrazia (la quale non va intesa nel senso medioevale-moderno del termine. Gli aristocratici stessi non erano ben certi dei confini del loro ceto). Questa democrazia, effettivamente, prevedeva che tutti i cittadini fossero uguali, potessero partecipare al governo dello stato e all’esercizio della giustizia (due cose strettamente legate, a differenza di oggi), e potessero essere eletti a qualunque carica, tranne a quella di stratego e ad alcune importanti cariche finanziarie, che richiedevano una determinata preparazione e, solitamente, erano d’appanaggio dell’aristocrazia. Tuttavia, chi erano i cittadini? I cittadini erano un’esigua minoranza della popolazione. Vanno esclusi in primo luogo tutte le donne e tutti gli schiavi. Poi vanno eliminati coloro che non avevano entrambi i genitori ateniesi e gli stranieri, seppur residenti ad Atene. Vi è sempre stata una forte tendenza a ridurre il numero di coloro che erano cittadini (solitamente, ad ogni modo, era necessario possedere della terra in territorio attico). Il numero preciso di cittadini veri non lo si conosce, ma si tendeva sempre ad escludere piuttosto che includere.
Comunque, effettivamente, all’interno di questo gruppo di privilegiati, tutti votavano, tutti, a rotazione (tutti quelli che volevano, ad esser precisi) facevano parte dei tribunali e dei consigli; tutti potevano accedere alla maggior parte delle cariche. Il governo era in effetti nelle mani del popolo, che lo esercitava direttamente (vi erano moltissime votazioni da fare per ogni aspetto). Le cariche pubbliche venivano retribuite (cosa unica nel mondo greco), in compenso del tempo sotratto ai lavori necessari al mantenimento della persona; non molto, circa quanto un salariato medio del tempo. Ciò provocava lo scandalo degli aristocratici, in quanto l’aristocratico era spesso associato a chi, potendo vivere di rendita, aveva il tempo per dedicarsi alla cosa pubblica. Durante questo periodo, il periodo pericleo, in quanto dominato dalla figura di Pericle, Atene divenne la città più grande della Grecia, la più ricca e la più bella. Sorsero le opere monumentali dell’Acropoli di Atene (costate, sembra, 2000 talenti, una cifra da capogiro per l’epoca), si pagava l’accesso al teatro per i meno ricchi, si pagavano le cariche pubbliche, si armavano le navi, ecc. Tutti questi soldi da dove venivano? Non c’erano tasse sulla popolazione; c’era una tassa per l’ultilizzo del porto (corrispondente al 2% del valore delle merci trasportate), si ricorreva molto alle donazioni di privati, e vi erano gli incassi degli affitti di proprietà dello stato e le miniere d’argento del Laurio, per un totale di poche centinaia di talenti. Decisamente insufficienti per permettere le immense spese a cui andava incontro la città. E dunque, da dove venivano gli altri soldi? E’ presto detto: dai tributi pagati dagli alleati della Lega di Delo. Tale Lega era nata all’indomani della Seconda Guerra Persiana, quando il nemico persiano si era solo ritirato, ma lo stato di guerra permaneva. La Lega doveva, infatti, assicurare la sicurezza della Grecia. Non vi entrano a far parte le città del Peloponneso, ma quelle della Ionia, della Tessaglia e, in generale, del Nord della Grecia. Inizialmente, i soldi della Lega venivano conservati a Delo e formalmente le città facenti parte erano sullo stesso piano, sebbene Atene avesse il comando delle operazioni, essendo subentrata a Sparta ed essendo, effettivamente, la più potente. Ma in poco tempo, Atene dimostrò di essere la padrona della Lega, e non solo il capo militare. Il tesoro venne trasferito ad Atene e la distinzione fra entrate dello stato ed entrate della Lega praticamento cessò d’essere. In molte città di quello che stava diventando l’impero di Atene vennero imposti regimi democratici, e spesso magistrati ateniesi vi venivano madati. In breve, non più un’alleanza, ma un impero. E un impero molto duro, poiché Atene era la signora assoluta; entrare nella Lega era libero, ma uscirne era impossibile, a meno di non voler entrare in guerra con la città a capo. L’obbiettivo originario della Lega fu raggiunto: la flotta persiana venne del tutto sconfitta; ma le città della Lega rimasero legate ad Atene in un rapporto di sudditanza completa.
La democrazia radicale si connotò come estremamente aggressiva e guerrafondaia, in particolare durante la Guerra del Peloponneso. Sparta ne venne tirata dentro controvoglia dagli alleati, esasperati dalla politica aggressiva di Atene anche nei loro confronti. Atene, d’altro canto, sembrava impaziente di far guerra alla principale rivale in Grecia, per avere il controllo di tutta l’Ellade. Fu una guerra dura e, a mano a mano che procede, si assiste a una sempre più dura e crudele condotta degli ateniesi, sia contro i nemici, sia contro gli alleati (i tributi furono aumentati e ogni defezione severamente punita) sia contro i neutrali (celebre l’episodio raccontato da Tucidide dell’isola di Melo, i cui abitanti furono uccisi brutalmente o venduti come schiavi). Se in parte questo comportamento può essere imputato al fatto che la città aveva perso la guida di Pericle, ciò non basta a render conto di come la democrazia di Atene si comportò nel corso della guerra.
Alcibiade esortò gli ateniesi a intraprendere una grande operazione contro Siracusa in Sicilia. Già alcuni anni prima ne era stata tentata una di poco inferiore, con esito deludente. Ma Alcibiade, abile e carismatico oratore, riuscì a far votare la proposta. Grandi furono i preparativi e le aspettative (pare che l’idea fosse di conquistare tutta la Magna Grecia e, secondo alcuni storici, anche Cartagine), disastroso l’esito. Alcibiade abbandonò la spedizione quasi subito, per evitare di ubbidire all’ordine che gli ingiungeva di tornare in patria e affrontare il processo per la mutilazione delle erme. E dove si rifugiò? A Sparta! E lì, per farsi benvolere, consigliò di inviare in Sicilia, in aiuto di Siracusa, il comandante spartano Gilippo, e di occupare in modo permanente la fortezza attica di Decelea, interrompendo i rifornimenti di argento (finora infatti gli spartani avevano invaso l’Attica ogni anno, per poi abbandonarla al sopraggiungere dell’inverno). Entrambi i suggerimenti ebbero il loro effetto positivo: in Sicilia l’intero esercito ateniese fu distrutto; o morirono o vennero schiavizzati. Nicia stesso, l’altro stratega mandato con la spedizione e che si era opposto fermamente a che venisse fatta (e, in generale, propendeva per un accordo con Sparta), morì; Atene si trovò mezza assediata, con il nemico perennemente sulla sua terra, e in condizioni finanziarie che incominciavano a farsi gravi. Non contento, Alcibiade si recò in Persia, dove riuscì a far sì che il Gran Re finanziasse Sparta. Fu questo, più di ogni altra cosa, a decretare il fato di Atene. Infatti, ora, Sparta poteva contare sulle formidabili risorse finanziarie dell’Impero Persiano, con le quali poté armare una flotta e finalmente competere sul mare con Atene. Alcibiade riuscì poco dopo a tornare ad Atene, accolto da una folla festante che lo nominò stratego. Dopo una vittoria navale, gli ateniesi rigettarono con arroganza le proposte di pace avanzate da Sparta. Alcibiade perse, e non per sua colpa, una secondaria battaglia navale e venne immediatamente esiliato da Atene (morì poco dopo in Persia, assassinato). Atene si ostinò nella guerra, fino a che non fu costretta a capitolare. Nonostante Tebe e Corinto ne invocassero a gran voce la distruzione, Sparta decise solo di imporre una flotta massima di 12 navi, di abbattere le mura e di instaurare un governo oligarchico.
Non vi sembra un po’ particolare il comportamento di questa democrazia? Non vi sembra quasi accecata da Ate, spesso evocata nelle tragedie che tanto amava il popolo ateniese? Uno stato impazzito, assurdamento superbo, con enormi progetti impossibili da realizzare e un’ostinazione e una arroganza paurose? Ybris, si potrebbe dire con i greci. Eppure questa è la democrazia su cui dicono di fondarsi quelle attuali. Si può obbiettare che però la democrazia di Pericle non era così. Non è vero. E’ con Pericle che la Lega diviene un impero molto duro, ed è con Pericle che si prepara la guerra con Sparta. Pericle aveva gli stessi desideri e ambizioni del resto del popolo di Atene, solo supportati da una bravura e strategia migliori. Allora si potrebbe obbiettare, come lo stesso Tucidide afferma, che quella di Pericle non era una vera democrazia, ma il governo del primo cittadino, e che i guai sono cominciati quando, morto lui, sono arrivati i demagoghi che lasciavano fare al popolo quello che voleva. Ma era pur sempre l’Assemblea, ovvero il popolo, ad eleggere Pericle e ad approvare, e volere, la guerra e la politica imperialista. Il potere rimaneva comunque nel popolo, ed era esso ad esercitarlo. E teoricamente la democrazia, antica e contemporanea, si basa su questo, non sul potere del primo cittadino.
Se ci pensiamo, effettivamente è su questa democrazia che si basano le nostre. Le radici cristiane nella costituzione europea non sono state inserite non perché non vi siano (sebbene, si inteda, i nostri politici siano convinti che manchino), ma perché non le si vogliono, poiché contrasterebbero pericolosamente con la democrazia che si prospetta. Una democrazia guerriera e militante che, molto più di qualunque religione, è convinta di avere la verità in tasca e d’essere la forma migliore possibile di governo, a cui tutti devono adeguarsi.
L'errore sta nelle diverse possibili accezioni della parola "popolo", il traducente del greco "dèmos". Popolo, per noi, è prima di tutto l'insieme delle persone che abitano un dato territorio, ma è anche un'unità etnica (per cui parte del popolo italiano sono anche i nipoti degli emigrati in USA...). Per gli antichi il popolo era quest'ultima cosa: il governo del popolo, dunque, era il governo di tutti coloro che avevano le stesse origini etniche.
RispondiEliminaIn effetti nell'attuale ripiegamento radical-culturale delle democrazie europee (pensiamo alla nuova costituzione ungherese di stampo autoritario o agli appelli delle destre sulle radici locali) possiamo leggere una considerazione di popolo di questo genere, un'unità etnica esclusiva (di matrice antica), opposta alla vecchia concezione inclusiva (di matrice, in realtà, cristiana). Ironicamente, sono coloro che gridano al preservare le origini cristiane che le rinnegano abbracciando la difesa etnica di chiara ascendenza precristiana.
Non tutti coloro che vogliono preservare le radici cristiane abbracciano la difesa etnica nel senso da te esposto. La Chiesa, in fondo, è sempre stata aperta verso gli altri, verso il diverso. Un antecedente degli antropologi, per esempio, può essere visto nei missionari (tanto per rialacciarsi a un mio post sui Miira, è stato un Gesuita il primo a portare in Europa racconti su di loro, e a quanto pare aveva assistito di persona ad alcuni dei loro riti).
RispondiEliminaPerò nessuna città greca pretendeva il dominio su tutte le colonie dove erano presenti suoi cittadini. Una colonia di Atene diventa formata da cittadini della nuova città, non più da cittadini ateniesi; difatti, le colonie erano indipendenti dalla madrepatria, a cui ricorrevano in caso di pericolo, sebbene naturalmente mantenessero rapporti relativamente buoni (infatti, la parola "colonia" non è la più adatta a indicare le fondazioni greche al di fuorid ella Grecia, dato che noi ormai con colonia intendiamo una cosa del tutto diversa).